Ansia, stress e disconnessione emotiva: nel nostro paese solo il 6% si dichiara davvero motivato, mentre il burnout cresce e la produttività crolla. Un forum nazionale lancia l’allarme: è il benessere il vero punto critico del lavoro oggi
Nel 2024 l’Italia è il fanalino di coda in Europa sul piano del benessere lavorativo. Solo il 6% dei lavoratori italiani si dichiara pienamente motivato, contro una media mondiale del 21%. Il dato, contenuto nel report State of the Global Workplace 2024 di Gallup, riassume una realtà già evidente in uffici, negozi e reparti: la gente lavora male, lavora troppo, e lavora infelice. In parallelo aumentano gli episodi di ansia, disconnessione emotiva, cali di concentrazione. L’Organizzazione mondiale della sanità stima in 12 miliardi le giornate di lavoro perse ogni anno a causa di disturbi psicologici come depressione e stress cronico. E l’Italia, inchiodata su un modello rigido e verticale, non sembra avere gli strumenti per reagire.
In molti casi, a mancare è un’idea diversa di lavoro. Nei paesi del nord Europa, dove l’autonomia individuale e il welfare funzionano, il lavoro viene percepito come parte della vita, non come un peso da trascinare. Da noi no. E non è un dettaglio. Il Wellbeing Happiness Forum, organizzato da Efi Ecosistema Formazione Italia, ha raccolto numeri e testimonianze di chi vive ogni giorno questo disagio. Il lavoro oggi fa stare male, e mentre altrove si sperimenta la settimana corta o il diritto alla disconnessione, in Italia la cultura del “presente in ufficio” continua a prevalere.
I segnali di un malessere strutturale che le imprese non vogliono vedere
I numeri parlano da soli. Il costo globale della demotivazione è di 8,9 trilioni di dollari. Nel nostro paese, l’impatto si misura anche in termini di produttività persa e turnover in crescita. Ma il nodo non è solo economico. Secondo Kevin Giorgis, presidente di EFI, “oggi i lavoratori non sono più disposti a sacrificare il proprio benessere in cambio della carriera o di uno stipendio più alto. I valori si sono spostati”. Il Forum ha ospitato oltre 800 partecipanti, 100 speaker e 20 organizzazioni attive sul tema del welfare. L’idea comune è che il benessere non sia più una questione accessoria. Anzi, è la condizione necessaria per trattenere i talenti e costruire organizzazioni sane.

Alcune aziende italiane cominciano a sperimentare forme di flessibilità, come lo smart working regolato o il supporto alla salute mentale, ma il cambiamento è lento. Il confronto con l’estero è impietoso. Nel Regno Unito, ad esempio, 61 imprese hanno testato la settimana di 4 giorni: dopo sei mesi il burnout è sceso del 71%. In Spagna, lavorare 37,5 ore settimanali ha migliorato l’umore generale dei dipendenti, senza compromettere i risultati.
In Italia, invece, le imprese sembrano sorde al problema. La ricerca Corporate Wellbeing 2025, realizzata da Radical Hr con EFI, Ugo e DoubleYou, mostra che solo 3 aziende su 10 considerano il benessere una priorità reale. E nel 57% dei casi non esiste una figura dedicata, come il Chief Happiness Officer. I budget sono spesso inesistenti, o inadeguati: solo il 15% delle imprese ritiene di avere risorse sufficienti per prendersi cura dei dipendenti.
I lavoratori fanno domande scomode e cercano altrove chi li fa stare meglio
Il disagio, intanto, si sposta nelle interviste di selezione. Circa un terzo dei candidati pone domande esplicite sulle politiche di benessere aziendale. E nel 70% delle aziende, i lavoratori chiedono esplicitamente misure concrete: psicologo, flessibilità, supporti per la gestione familiare. Ma spesso trovano risposte vaghe, evasive o promesse non mantenute.
Il risultato è che le persone iniziano a scegliere il lavoro in base a quanto si sentono ascoltate. Lo confermano le statistiche: l’engagement migliora del 68% nelle aziende attente al benessere, e il clima interno migliora del 67%. Anche la capacità di attrarre profili competenti cresce sensibilmente. Ma nonostante questi vantaggi concreti, molte aziende italiane restano ferme, ostaggio di modelli che non funzionano più.
Il Forum, ospitato a Roma, ha provato ad aprire un dialogo serio. Ha coinvolto Hr manager, formatori, esperti e istituzioni. L’obiettivo dichiarato è creare una nuova cultura del lavoro: non più centrata sul controllo, ma sulla cura delle persone. Un passaggio difficile, ma inevitabile. Perché se il lavoro fa star male, prima o poi le persone smettono di crederci. E se smettono di crederci, non lo faranno più bene. Il rischio è già sotto gli occhi di tutti.
