Reperti, dati e testimonianze: un’esperienza immersiva che mette in discussione il nostro presente
Nel cuore di Roma, in via Flaminia, prende forma un progetto espositivo inedito nel panorama culturale italiano: il Museo del Patriarcato, noto come MUPA, si propone come spazio vivo, immersivo e provocatorio.
Non una mostra neutra, ma un dispositivo narrativo che mette a nudo le radici storiche, culturali e sociali di un modello patriarcale che ha segnato – e continua a segnare – la vita di milioni di persone. Aperto fino al 25 novembre, in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, il MUPA usa linguaggi differenti per sollevare interrogativi urgenti: come si costruisce la mentalità patriarcale? Dove si nasconde oggi? E cosa serve per decostruirla davvero?
Dalla memoria al corpo sociale: quando il museo diventa spazio politico e partecipato
La scelta di ospitare il MUPA nello spazio AlbumArte, in un quartiere romano attraversato da flussi culturali e generazionali, non è casuale. L’allestimento non si limita a una sequenza di oggetti o testi, ma propone un percorso immersivo che coinvolge il visitatore su più livelli. Reperti autentici, ricostruzioni di ambienti familiari, opere d’arte e materiali audio-video raccontano una quotidianità segnata da discriminazioni normalizzate, linguaggi sessisti, gesti considerati “naturali” ma profondamente violenti. L’obiettivo non è solo mostrare, ma interrogare.

Nella prima sala si entra nel cuore della questione: l’intimità domestica. Arredi, abiti, registrazioni e documenti riportano alle atmosfere della seconda metà del Novecento, mettendo in luce come il patriarcato si sia radicato attraverso abitudini, ruoli imposti, silenzi collettivi. In un’altra sezione, il pubblico viene chiamato a riflettere sul linguaggio: frasi comuni, modi di dire, titoli di giornale vengono ricontestualizzati per svelarne la violenza implicita.
Ma il MUPA non si ferma al passato. Ogni spazio è pensato per dialogare con il presente. Incontri pubblici, performance, laboratori e momenti di confronto completano il percorso espositivo. Sono previste anche attività per le scuole, con l’obiettivo di coinvolgere le nuove generazioni in una riflessione collettiva. Chi entra esce con domande aperte, magari con qualche certezza in meno, ma con una consapevolezza in più. Il museo diventa così uno spazio di responsabilità, dove la storia non serve a celebrare, ma a cambiare.
I numeri di un sistema che resiste: stereotipi, violenza e consenso tra le nuove generazioni
Tra le fonti su cui si basa l’allestimento, c’è anche la recente indagine “Perché non accada”, curata da ActionAid insieme all’Osservatorio di Pavia e B2Research. Il quadro che ne emerge è allarmante. In un’Italia che spesso si racconta come progredita, una parte significativa della popolazione continua a giustificare o tollerare comportamenti patriarcali, in particolare quelli legati al controllo economico o psicologico della partner.
Il 55% dei Millennial interpellati ritiene legittimo esercitare controllo sulla propria compagna, e quasi due uomini su dieci considerano accettabile la violenza fisica in risposta a comportamenti ritenuti “provocatori”. I dati raccolti mostrano un paradosso inquietante: se da un lato il discorso pubblico sembra più sensibile, dall’altro il consenso culturale verso certi gesti non è affatto scomparso. Si è trasformato, mimetizzato, spostato nei linguaggi digitali, nelle relazioni affettive, nei meccanismi di colpevolizzazione.
Il museo non offre soluzioni preconfezionate, ma mostra – con forza – come la violenza non sia solo un fatto individuale, ma un sistema che attraversa generazioni e istituzioni. Dai Boomer che negano, ai giovani che normalizzano, la linea di continuità è chiara: manca una prevenzione primaria integrata nelle politiche pubbliche e nella cultura diffusa. Ecco perché il MUPA è pensato come un atto culturale ma anche politico: non per accusare, ma per mostrare, interrogare, smontare. Un invito a tutti – uomini, donne, giovani, educatori – a riconoscere cosa significa davvero superare il patriarcato. E soprattutto, dove ancora ci abita.
Un museo che mostra cosa significa guardarsi dentro (davvero)
Chi visita il MUPA non esce come è entrato. Il museo funziona perché non impone una tesi, ma espone un sistema. Lo rende visibile, tangibile, a volte scomodo. Soprattutto, mostra quanto il patriarcato non sia una categoria teorica ma una trama concreta fatta di oggetti, parole, automatismi quotidiani. Non c’è un percorso da seguire passivamente. Ogni sezione interroga chi guarda, chiede di prendere posizione, mette davanti la responsabilità di chi riceve e di chi tramanda.
A rendere il MUPA potente non sono solo le opere esposte, ma l’idea che un museo possa essere anche un luogo che produce cambiamento, che agisce sul linguaggio comune, sulle relazioni, sulle scelte di ogni giorno. Non ci sono eroi da celebrare, ma una struttura da smontare. E in questo processo ognuno è parte in causa.
In una società dove il dibattito pubblico sembra correre tra estremi e slogan, il MUPA propone un tempo lento, denso, fatto di ascolto e presenza. È una forma di pedagogia civile, che non accusa ma chiede di vedere, di nominare, di non girarsi dall’altra parte. Una mostra che dura pochi giorni, ma lascia aperta una domanda molto più lunga: quanto patriarcato ci portiamo ancora dentro?
