Pareti neutre, luci incassate e salotti cloni: il 2026 segna l’inizio di una rivoluzione d’autore, dove l’interior design diventa espressione personale, non imitazione di massa.
Era cominciata piano, quasi per moda. Prima il grigio, poi il beige, poi quella patina “finta rustica” che ha reso uguali milioni di case da Instagram. Adesso, però, qualcosa si è rotto. Una nuova generazione di interior designer non accetta più compromessi, e il 2026 diventa — più che una data — una linea di confine simbolica.
Niente più pareti bianco sporco, niente più LED ovunque, niente più stanze costruite per piacere a tutti e appartenere a nessuno. Otto progettisti spagnoli si sono esposti, elencando uno per uno gli elementi che non vogliono più vedere nei loro lavori. Il risultato? Una lista di divieti apparenti che, in realtà, apre il campo a nuove forme, nuove texture, e una libertà creativa molto più vera.
Luci fredde, spazi cloni e pareti neutre: cosa vogliono davvero lasciarsi alle spalle gli interior designer del 2026
In cima alla lista dei “mai più” c’è lui: il controsoffitto pieno di faretti LED. Lo dice senza mezzi termini Paula Mena, architetta a capo di Estudio Yeyé. Quel tipo di illuminazione, pensata per essere funzionale e discreta, ha finito per rendere freddi e impersonali anche gli ambienti più caldi. “Preferisco luci con carattere”, dice. Applique, lampade a stelo, punti luce scolpiti ad arte. Oggetti che oltre a illuminare, raccontano.
Il secondo bersaglio è il colore neutro imposto. Sigfrido Serra, da Valencia, punta il dito contro il bianco sporco: “Non è né bianco né sporco. È solo un compromesso che genera dibattiti inutili”. A lui interessa il coraggio cromatico. Colori che parlano, che lasciano il segno, anche se non piacciono a tutti. In fondo, lo scopo non è più uniformare, ma caratterizzare ogni ambiente in base alla persona che lo abita.

Nel mirino anche la mania dei render perfetti e degli interni “internazionali”. Alejandro Cateto, con il suo studio Cateto Cateto, lancia un messaggio forte: basta con i ristoranti e gli appartamenti che sembrano tutti uguali, da Madrid a Istanbul. Serve un ritorno a materiali e stili autoctoni, capaci di raccontare l’identità di un luogo. Lui lo chiama “catetismo”, in modo provocatorio. Ma la sostanza è chiara: se una casa potrebbe essere ovunque, allora non è di nessuno.
Per Omar Miranda, invece, la battaglia è contro la semplificazione funzionale. Come quella che porta ad eliminare i corridoi perché “non servono”. Lui li difende: sono spazi di transizione, luoghi dove si cammina, si riflette, si entra e si esce. In architettura, anche il tempo ha un valore, e togliere un corridoio per guadagnare un metro quadrato può voler dire perdere l’anima della casa.
Colori veri, forme irregolari e materiali grezzi: l’anti-trend è fatto di memoria, imperfezione e libertà
Non basta dire no al beige per essere liberi. Serve ripensare tutto. Antonio Antequera, dello studio madrileno Extrarradio, lo dice chiaramente: “Viva il caos”. Ma attenzione: non un disordine casuale, bensì una strategia fatta di strati, superfici vive e materiali veri. Non finto Mediterraneo, ma legno grezzo, pietra ruvida, metallo non trattato. Tutto ciò che parla di tempo, di trasformazione, di tracce lasciate. È la reazione naturale a un decennio in cui le case sembravano set fotografici, sempre puliti, sempre nuovi, sempre uguali.
Gloria Matías, di Mikamoka, rifiuta invece le tendenze imposte dai social. Ogni progetto che realizza parte dalla persona, non da ciò che va di moda. “Un design non deve avere una data di scadenza”, dice. Il riferimento è chiarissimo: quei materiali che tutti vogliono per un anno e poi fanno sembrare tutto subito vecchio. Lei preferisce l’unicità al consenso. E lo dimostra creando spazi che sembrano pezzi unici, mai seriali.
Noé Prades, da Barcellona, aggiunge un altro elemento: l’ascolto dello spazio. Ogni abitazione, ogni stanza ha una sua voce, un ritmo, un modo di respirare. Forzare un’estetica preconfezionata in un luogo che non la regge significa rompere un equilibrio fragile. I suoi interni sono ibridi, fluidi, pieni di materiali e culture mescolate, e proprio per questo veri.
Infine, Borja Maristany, da Estudio BOMAA, porta il discorso sulla terra. Design sì, ma anche funzione. Sembra banale, ma non lo è: troppe case o ristoranti vengono progettati senza pensare alla vita reale. Lui, nel 2026, non dimenticherà mai più un guardaroba, o un punto dove appoggiare il cappotto. Perché anche il comfort, nel design, è un gesto d’autore.
